Si tratta di Marco Dolfin, la cui vicenda di speranza e voglia di ricominciare nonostante le difficoltà è raccontata in un libro, scritto dal fratello Alberto Dolfin, giornalista sportivo.

di Giada Rapa
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Forza d’animo, caparbietà, desiderio di non arrendersi. Voglia di ritrovare una sorta di normalità, di indipendenza, quando la vita ti pone davanti a una sfida apparentemente insuperabile. Tutto questo è racchiuso nella storia di Marco Dolfin, un uomo la cui esistenza si divide ora tra due corsie: quella della piscina e quella dell’ospedale San Giovanni Bosco.
Una vicenda che parte da un tragico evento, l’11 ottobre 2011. All’epoca Marco ha 30 anni, è da poco tornato dal viaggio di nozze con la moglie. Dopo 5 anni di specialità ha finalmente ottenuto, insieme a un altro collega, l’assunzione presso il San Giovanni Bosco. “Il ché ci aveva fatto vincere anche tutti i turni in Pronto Soccorso” ha raccontato, scherzoso, il dottore. E quel giorno aveva deciso di recarsi in ospedale un po’ prima dell’inizio del turno, per dare una mano al collega. “Alla fine, invece, gli ho dato più lavoro” ha continuato a raccontare, perché al San Giovanni Bosco non ci arriva da medico, ma da paziente. Quel giorno la vita di Dolfin cambia: un terribile incidente che coinvolge un’auto che si scontra con la sua moto lo porta alla diagnosi di una paraplegia incompleta. Ovvero il dover restare per sempre su una carrozzina. È a questo punto che, invece di arrendersi, il medico sceglie di non mollare e anzi proseguire nel suo lavoro, tornando a operare i suoi pazienti grazie a una speciale carrozzina verticalizzabile che lo mantiene in posizione eretta per tutta la durata degli interventi. Riprende anche a fare attività sportiva, soprattutto nuoto. E proprio questa disciplina lo porterà alle Paralimpiadi 2016 di Rio de Janeiro, conquistando il 4° posto nei 100 metri rana.
Dolfin ha raccontato la sua storia qualche giorno ad un pubblico di Caselle, storia che è diventata anche in un libro “Iron Mark – Le corsie di Marco Dolfin: chirurgo e nuotatore”, scritto dal fratello giornalista sportivo Alberto. “L’idea è quella di far conoscere la mia vicenda non per auto-lodarmi, ma per restituire il favore. Mi è servito tanto conoscere altre storie, soprattutto nell’anno trascorso presso l’Unità Spinale. Non voglio dare lezioni di vita, ma solo un’occasione di stimolo”.