LA RIFLESSIONE – Farhad Bitani, quando la violenza e l’odio si trasformano in amore verso il prossimo


L’ex militare afghano, oggi educatore e mediatore culturale, nei vari incontri che tiene in giro per Torino e in Italia, racconta la storia del suo cambiamento verso coloro che considerava “infedeli”.

di Giada Rapa

In occasione della Giornata Internazionale della Pace, tenutasi giovedì 21 settembre, la comunità parrocchiale borgarese ha incontrato Farhad Bitani, educatore e mediatore culturale, passato da una vita fatta di guerre, violenza e odio a un’esistenza nell’amore di Dio.

È una storia difficile, quella di Farhad, figlio di un generale dei mujaheddin – e ultimo di 6 tra fratelli e sorelle – nato nel 1986 durante la guerra in Afghanistan. “A quei tempi la guerra devastava il territorio, le nostre condizioni erano ancora peggiori di quelle che vive adesso la Siria. Spesso non potevamo giocare in strada a causa dei bombardamenti, e quando lo facevamo eravamo circondati da cadaveri e da donne che venivano stuprate. Per noi quella era la normalità. Il mio primo giocattolo è stato un kalashnikov russo, che a 6 anni sapevo già smontare e rimontare correttamente” ha esordito Farhad, che dopo l’arrivo dei Talebani ha vissuto orrori ancora peggiori. “Nel 1996 mio padre è stato incarcerato e mia madre ha portato me e mio fratello in un quartiere povero dell’Afghanistan, intimandoci di non confidare mai a nessuno di essere figli di un generale. Dai talebani abbiamo subito il lavaggio del cervello, ci facevano credere che la via per il paradiso fosse l’uccisione degli infedeli. Gli stadi di calcio venivano usati per le lapidazioni pubbliche, convinti che guardando quegli orrori Dio avrebbe diminuito i nostri peccati. Tutti noi abbiamo assorbito quella violenza”.

Un primo dubbio si è però insinuato nel cuore di Farhad quando ha assistito alla lapidazione di una giovane moglie e madre per mano del marito, che aveva costretto i figli – di circa 7 e 9 anni – a partecipare a quell’orrore. “I bambini piangevano, volevano andare dalla loro mamma, ma glielo impedivano. Per la prima volta mi sono chiesto perché”. La vita di Farhad subisce nuovamente una svolta quando, nel 2005, il padre lo esorta ad andare in Italia. “Appena sono arrivato in aeroporto ho visto soltanto una moltitudine di infedeli. Pregavo Dio per avere il potere di ucciderli” ha confessato Farhad. Le cose hanno iniziato a cambiare dal 2008, attraverso “piccoli gesti quotidiani”, come il rispetto della sua cultura o una mano sulla fronte che gli sentiva la febbre proprio come faceva sua madre quando era bambino. Farhad ha quindi deciso di leggere il Corano in lingua persiana – quella che conosce meglio – scoprendo così che non vi era traccia nel Libro sacro della maggior parte delle cose che gli erano state inculcate in giovane età. “Nel Corano ho trovato aiuto e rispetto per gli altri, ed è parola di Allah che nessuno può prendere la vita di un altro individuo. Il problema non è nella religione islamica, ma nei musulmani, poiché il 90% di loro non conosce cosa c’è realmente scritto nel testo sacro. Occorre andare in fondo all’umanità delle persone per conoscerle davvero”. Questo, e l’essere sopravvissuto a un attacco dei talebani nel 2011, ha portato Farhad verso il mutamento. “Sono cambiato attraverso la conoscenza del diverso, attraverso i piccoli gesti di bene. È quando questi vengono a mancare che aumenta la violenza”. Questa esperienza è raccontata dal giovane in un libro, L’Ultimo Lenzuolo Bianco, che si configura anche come opera di denuncia contro il fondamentalismo.


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